di Angela Ganci, psicologo psicoterapeuta, giornalista e scrittrice
Il primo giorno della mia vita, film suggestivo, imponente, toccante, uscito nelle sale cinematografiche il 26 gennaio 2023, diretto da Paolo Genovese, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2018 scritto dallo stesso regista Genovese, edito da Giulio Einaudi, con Toni Servillo, Valerio Mastandrea e Margherita Buy.
Un film dai toni forti che scandaglia il tema forte del suicidio, alla presenza di quattro suicidi e di qualcuno (un Toni Servillo strepitoso) che “ti vuole fare cambiare prospettiva”, un uomo misterioso che offre ai quattro personaggi l’opportunità di guardare dall’esterno per una settimana il mondo, come fantasmi che osservano lo scorrere della vita dopo la loro dipartita. Il fine? Capire cosa hanno perduto e, si spera, cambiare idea. Ecco allora la scommessa “Vedere come può essere il mondo senza di noi, vedersi morire tra le reazioni degli amici, vivendo una propria morte da non augurarsi dopo quei sette giorni fatidici”.
Ecco che l’impostazione de Il Primo Giorno della Mia Vita è la stessa di The Place, il racconto in chiave soprannaturale che si fa metafora e riflessione sul senso dell’esistenza, ruotando intorno all’eterno tema della ricerca della felicità.
E da qui le vicende collegate a una morte ambita e desiderata, per la donna “un Dio che ha deciso di pisciare dentro la propria vita”, la vista del bambino che ha deciso di morire con 40 ciambelle da diabetico, mentre assiste alla propria morte senza poter interagire con i propri parenti, il marito Mastandrea che sente dire alla propria moglie di essere colpevole della sua morte.
La vita è bella e va vissuta, tutte “cazzate del genere” contro cui scagliarsi mentre “vedere la propria morte fa male perché comunque la vita va avanti”.
Interessante in questo contesto la scena in cui, a turno, i suicidi, di fronte a uno schermo del cinema, sono messi su fronte alle “persone che attendono ciascuno nel futuro, le persone importanti, che comunque non è detto che ci renderanno felici” (terzo giorno).
E al quarto giorno ecco il tentativo del talentuoso Mastandrea, che già aveva intrigato il grande pubblico in The Place dello stesso Genovese, di farla finita (prima della fine dei sette giorni di ripensamento) e il fallimento puntuale del suicidio sotto il treno, mentre resta, pesante, quello star male senza sapere il perché. Forse continuare a vivere perché ne vale la pena? Vivere perché siamo tutti sostituibili, ma unici?
E poi il quinto giorno e il pranzo succulento, sulle note del celeberrimo “Se mi lasci non vale”, arricchito dai sorrisi dei suicidi e dalla nomina ufficiale del nuovo collaboratore di Servillo, lo stesso Mastandrea.
Suggestivo ancora l’esempio delle luci che si accendono e spengono sulla città immortale, in realtà uno scenario demoralizzante della Roma senza Roma, a simboleggiare quante persone siano felici, la “non garanzia di una felicità che è di per sè altalenante, a cui si affianca l’importanza della nostalgia della felicità, così da spingere a cercarla”. Perché “non è possibile cancellare il dolore, ma dargli un senso sì”.
Insomma, Genovese è onesto e non semplifica le cose: ci dice che la vita vale la pena di essere vissuta, ma non per questo la trasforma in uno scenario fiabesco e magico. C’è poco da stare allegri, e la scena sopra citata, in cui Servillo mostra quante sono le persone effettivamente felici in una metropoli come Roma, non lascia dubbi al riguardo. Quello che colpisce nel film è però il fatto che la felicità resti una questione strettamente individuale e individualistica. Non esiste più nessuna comunità reale o ideale di riferimento, al massimo la famiglia, e nemmeno quella (in riferimento al il padre gretto e arraffone del piccolo Daniele). Siamo all’interno di un film cupo e poco tonificante perché cupo è il contesto di un mondo in cui l’individuo si muove solitario, in una prospettiva in cui al massimo ci è offerto di seguire e conseguire una malcerta felicità sempre sul punto di sgretolarsi .
Non c’è nemmeno l’ombra di prospettive collettive, di un’idea di futuro, di una esistenza degna di essere vissuta non in vista della felicità possibile ma per la sua utilità e il significato sovraindividuali. Così il ritorno alla vita si riduce a un atto di buona volontà, ma manca un mondo intorno che entri in risonanza con il ritrovato ottimismo personale. L’ottimismo della volontà deve bastare a sé stesso, in una continua pratica di autoconvincimento da manuale di autoaiuto, di cui l’angelo Servillo offre una personificazione che però resta balbettante (per approfondire si rinvia al link Il Primo Giorno della Mia Vita, recensione – OM Optimagazine).
Ecco allora spiegato il gran finale in cui “Restare diviene una scelta ragionata, in cui buttare le ciambelle, invece di ingurgitarle per compiacere un padre incompetente, è una scelta assennata, in cui salvare dai cornicioni una ragazza disperata non è più necessario perché quella stessa ragazza ha deciso di danzare verso una vita che rivuole”.
E in questa scelta soggettiva ci sarà quindi sempre quell’Uno che la vuole fare finita perché “il mondo è un brutto posto”, sotto la pioggia scrosciante di una Roma riconoscibilissima. Anche questo accade, ma, forse, anche questa è Vita valevole a salvare ulteriori vite in bilico, prive ancora di un autoconvincimento salvifico.
In conclusione, pienamente in sintonia con quanto si legge al link Il Primo Giorno della Mia Vita, recensione – OM Optimagazine sopra riportato ‘Letta in questa prospettiva, l’incapacità dei personaggi di parlare autenticamente l’uno con l’altro, il loro restare ostinatamente chiusi dentro la propria monade un po’ egoista non è un difetto del film, è semmai il riflesso del mondo in cui viviamo o crediamo di vivere, in cui la massima promessa è il conseguimento di un benessere personale. Non è un caso allora che il personaggio più infelice e tormentato sia Napoleone-Mastandrea, che ha ottenuto tutto il successo materiale che la vita poteva promettergli. Ma resta tragicamente solo e disperato. E forse non ha tutti i torti, se intorno a lui sembrano non esserci speranze residue. Non sarà forse un “bel” film Il Primo Giorno della Mia Vita. Ma un racconto sintomatico di una realtà raccontata senza eccessive illusioni, quello sì. E non è poco’.
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