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Lavoro: quel senso (tragico) di un Sé naufragato

di Angela Ganci, psicologo psicoterapeuta, giornalista, docente.

Norman Zarcone, nel 2010, a soli ventisette anni, si suicida perché, utilizzando le parole del suo stesso padre, «lo Stato uccide i suoi figli migliori, gli chiude le porte, assassina la speranza, l’entusiasmo e le competenze». Norman era un giornalista pubblicista, con tanti sogni per il proprio futuro, un futuro segnato dal precariato e da un senso di Sé vacillante a causa proprio di un’instabilita’ lavorativa che si traduce, non di rado, in un vacillante senso di autostima e identita’.
Il lavoro, fondamento della Repubblica Italiana, laddove all’articolo 1 della nostra Costituzione si afferma in modo molto chiaro che “l’Italia è una Repubblica basata sul lavoro”. E che ogni cittadino italiano debba avere la possibilità di lavorare è indubbiamente una certezza, che si scontra pero’ con l’evidenza per cui questo stesso lavoro, a causa della moderna disoccupazione dilagante, è realtà tutt’altro che assicurata.
Certo, non tutte le vicende di chi, suo malgrado, non trova un lavoro che si collochi in un range di decenza conoscono così tragici epiloghi, non tutti arrivano a compiere gesti inusitati e l’ipotesi di una componente psichiatrica aleggia.
Il lavoro è pero’ davvero importante, da considerarsi un “Regolatore della giornata in termini di orari, sensazione di utilità personale ed efficienza”, oltre ad essere motivo di benessere, con cui condurre una vita agiata e permettere ad altri di farlo.
E se il numero di imprenditori suicidi per non poter pagare gli stipendi ai dipendenti aumenta, al di là di una vergogna suicida e psicopatologica, la domanda che tutti dovremmo porci è come prevenire questi episodi, come sostenere, economicamente, psicologicamente e attraverso adeguati programmi di ricollocamento, queste persone, come restituire dignità a chi ha perso un’identità basata su un lavoro che, se non è tutto, senz’altro costituisce una parte importante del Sentirsi pienamente Uomo e Cittadino.