di Giulio Ambrosetti
La settimana economica finanziaria e commerciale, bene o male, si è chiusa. A tenere banco è la guerra sui dazi doganali tra Stati Uniti d’America e Cina. La chiusura, tra questi due Paesi, è reciproca. Entrambi hanno adottato tariffe del 125%. E’ evidente, almeno fino a questo momento, che non c’è voglia di riprendere i rapporti commerciali. Poi, si sa, il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, è imprevedibile: scrivere un articolo sul suo operato è un mezzo rischio, perché a cambiare radicalmente opinione impiega un nanosecondo… Anche perché, in queste ore, sui mezzi d’informazione va una sua esternazione in base alla quale lo stesso Trump apre al dialogo con la Cina e si dice pure ottimista mentre i cinesi sono più che contrariati. Comunque, per ora i dazi da una parte e dell’altra ci sono. Proviamo a capire cosa sta succedendo.
Partiamo dall’interscambio commerciale tra questi due Paesi. Gli americani esportano in Cina beni pari a un valore di poco più di 140 miliardi di dollari all’anno; i cinesi, invece, esportano negli USA beni pari a un valore di circa 340 miliardi di dollari all’anno. In questo momento a guadagnare è la Cina che, non a caso, sta inondando di ricorsi le autorità che dovrebbero occuparsi del commercio mondiale.
Questo è, forse, l’aspetto paradossale di questa vicenda. La Cina è un Paese comunista e, in quanto tale, non dovrebbe avallare il regime ultra-liberista e globalista, se non altro perché la globalizzazione dell’economia, in tanti Paesi del mondo, ha aumentato le diseguaglianze economiche e sociali. Invece la Cina ‘comunista’ difende la globalizzazione, come del resto sta facendo la Commissione europea. Anche se nell’Unione europea non mancano forze politiche contrarie all’ultra-liberismo.
Ma non divaghiamo.
Come abbiamo già illustrato in altri articoli, oggi gli Stati Uniti d’America di Trump sono impegnati a ridurre il deficit federale. Basti pensare che, nei primi tre mesi di questo 2025, il deficit federale degli USA si è attestato intorno a 700 miliardi di dollari. C’è il rischio che, a fine anno, il deficit arrivi a 2 mila e 800 miliardi di dollari: 800 miliardi di dollari in più rispetto al deficit federale dello scorso anno, che si è attestato intorno a 2 mila miliardi di dollari: cifra che è stata considerata stratosferica.
Così l’America di Trump ha deciso di ridurre drasticamente il deficit federale. Soprattutto con la Cina. Perché? Il motivo è legato al fatto che gli USA, oggi, debbono stare attenti, perché il mondo è cambiato. Fino a qualche anno fa quello che l’America perdeva con il deficit federale lo riprendeva con le speculazioni monetarie grazie al dollaro moneta ‘planetaria’. E se non riuscivano a recuperare con le manovre sul dollaro, ecco che ‘esportavano’ un po’ di democrazia con le guerre: guerre che, alla fine, sono servite agli americani per accaparrarsi il controllo di beni fondamentali: petrolio e via continuando.
Oggi non è più così. Ormai da qualche anno è in corso il cosiddetto processo di ‘dedollarizzazione’: alcuni Paesi del mondo commercializzano tra di loro i propri prodotti senza utilizzare il dollaro americano.
La ‘dedollarizzazione, che è all’inizio e che, ovviamente, indebolisce l’area del dollaro statunitense è guidata proprio dalla Cina. Ora, non c’è bisogno di essere grandi economisti per arrivare alla conclusione che gli americani non possono certo tollerare che il Paese che guida la ‘guerra’ al dollaro americano guadagni 300 miliardi di dollari ogni anno esportando i propri negli USA. Non solo. In Cina l’economia è gestita dallo Stato. Le aziende cinesi sono sostenute dallo Stato. Questo avvantaggia le imprese cinesi rispetto alle imprese di atri Paesi del mondo dove le imprese o sono sostenute solo in minima parte dalla mano pubblica, o non sono sostenute affatto dagli Stati.
C’è un altro problema che, in effetti, non è secondario. Abbiamo scritto che l’interscambio USA-Cina è favorevole ai cinesi per circa 300 miliardi di dollari. In realtà la cifra è maggiore. Perché? Perché i cinesi sono dei furbacchioni ed effettuano le cosiddette ‘triangolazioni’. In pratica, vendono beni ad alcuni Paesi che ‘impupano’ alla meglio questi prodotti e li rivendono negli Stati Uniti. Guadagnano i cinesi, guadagnano i Paesi che reggono il gioco agli stessi cinesi e gli americani vengono sostanzialmente gabbati con la scusa che si tratta di prodotti ‘semilavorati’. Possibile che gli statunitensi non si siano mai accorti di questi giochetti commerciali? Assolutamente no, perché lo sanno benissimo. Solo che fino ad oggi hanno fatto finta di non capire.
Ora, però, hanno detto basta. Non a caso i primi dazi doganali americani hanno colpito due Paesi specializzati, da anni, in queste ‘triangolazioni’ con i cinesi: Canada e Messico. E’ come se, utilizzando la lingua siciliana, Trump avesse detto a canadesi e messicani: “’Stu babbiu cu i ‘semilavorati’ cinisi avi a finiri…”. Come ha dimostrato la settimana che si è conclusa, Trump ci mette poco ad appioppare dazi del 100% a Canada e Messico. Concludiamo con una domanda: come finirà tra USA e Cina? Non lo sappiamo. Ma una cosa è certa: come scritto all’inizio, Trump deve ridurre il deficit federale. O aumentando le esportazioni, in questo caso verso la Cina; o riducendo le importazioni, magari con i dazi doganali.
Poi, ribadiamo, Trump è imprevedibile ed è impossibile sapere in anticipo cosa gli frulla nella mente. Anche se questo suo carattere imprevedibile e a tratti un po’ folle nasconde, in realtà, una buona dose di lucidità, soprattutto se di mezzo c’è il denaro. Non a caso è diventato miliardario.
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