22 Settembre 2024

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The father: la recensione

Di Angela Ganci, psicologo psicoterapeuta, scrittrice, docente.

Miglior sceneggiatura non originale e miglior attore protagonista, Anthony Hopkins: due riconoscimenti da Oscar che The Father – Nulla è come sembra – di Florian Zeller, già curatore della versione teatrale, sembra davvero meritare, in quanto pellicola di elevato spessore tematico e dai toni emotivi struggenti.
Struggente, appassionante, drammaticamente verosimile, soprattutto per chi ha vissuto il tunnel della demenza da vicino, come familiare.
Certo, sembra strano vedere l’Hopkins sadico e manipolatore de “Il silenzio degli innocenti” trasformarsi in un vecchietto in vestaglia rossa e pigiama a righe, confuso, disorientato nel tempo e nello spazio, un uomo in età senile che perde progressivamente le comuni abilità motorie, come vestirsi in autonomia, relegato a un passato prossimo troppo presto dimenticato, dipendente dalle cure dei familiari.
Anthony (e qui l’attore mantiene il suo vero nome) è un uomo anziano che vive nel proprio appartamento a Londra, accudito dalla figlia Anne che lo visita di frequente e che “vede, soffrendo, un padre che non la riconosce più, per cui è una totale estranea”. Il film si apre con uno dei dolori più grandi che un padre possa soffrire, la perdita della figlia, anche temporanea. Anne ha infatti deciso di trasferirsi a Parigi, insieme al suo compagno amato, quindi urge trovare una nuova badante per il padre anziano e malato. Beh, anziano e malato, ma non arreso o docile, a ribadire quanto ogni malattia si instauri all’interno di una personalità specifica. Qui ritroviamo, e a tratti appare proprio così, l’Hannibal Lecter aggressivo e diretto, come siamo abituati a conoscere l’ottimo Hopkins, quando è certo di sopravvivere alla figlia e la accusa di volerlo liquidare, davanti alla nuova badante che si spera possa sopportarlo, dopo il rifiuto della prima, motivo di estrema preoccupazione per la figlia, che l’ha spinta a portarlo a casa sua, sorvegliato dalla famiglia.
Si, perché la prima parte del film si svolge in casa, una casa che appare alquanto indefinita, come ci trasmette il protagonista (quella di Anthony o della figlia)?
Quel che è certo è che lui resterà in casa sua (o della figlia, un’interrogativo che annebbia la mente del protagonista), senza badanti, tranne poi affezionarsi a una giovane donna che riuscirà a “sopportare” le sue sfuriate.
Che importa in fondo forse di una badante che comunque riesce a prenderlo, rabbonendo quel carattere arcigno?
Tutto sommato Anne è rimasta a Londra, lo accudisce, benché assistiamo al malcontento del compagno che la vorrebbe tutto per sé, addirittura suggerendo alla donna, anzi spingendola, alla Soluzione magica dell’istituto, perché “tuo padre è malato e la dottoressa dice che peggiorerà sicuramente”.
Un padre in pigiama all’ora di cena, che non lo ha mai tolto dal mattino, che fatica a riconoscere i familiari, che dimentica dove ha riposto gli oggetti, che sostiene gli vengano rubati, che teme di “restare in mutande”, che chiede l’orario, scambiando il giorno per la notte.
Più il film prosegue più infatti la patologia prende piede, quindi la dipendenza dagli altri e la confusione circa l’identità propria e altrui.
Cambiano i personaggi e gli ambienti: perché, ne siamo certi, Anne non potra sopportare il peso dell’istituzionalizzazione di un padre tanto amato, a cui puntualmente cucina il pollo, elemento che scandisce le cene familiari, quindi il tempo, come a ridurre la confusione della patologia.
Siamo gia’ verso la fine del film, tutto appare scontato, ma, come riporta il sottotitolo di The father, Nulla è come sembra, a partire dai luoghi.
Si, perché la casa dove avevamo visto, per i due terzi del film, il protagonista dormire, passeggiare, mangiare, cambia inesorabilmente: ci troviamo adesso in una clinica, con gli immancabili infermieri, il bianco delle mura, la desolazione della Non Famiglia canonica.
Infermieri, ma, e qui il colpo di scena, non i soliti infermieri: si, perché quei personaggi li conosciamo gia’, solo che adesso hanno nomi differenti e svolgono professioni diverse, una tra tutte la prima badante bistrattata, trasformatasi in servizievole infermiera.
Conosciamo lei, e, pian piano conosciamo tutta la Verità: quella di una figlia realmente partita per la Francia “dove si parla solo francese”, della clinica dove il protagonista vive da tempo, un tempo che la sua mente si era rifiutato di accettare e aveva modificato nel tempo della casa (sua o della figlia?), consegnato come Prima Verità a noi ignari spettatori.
The father, un film emozionante che ci conduce direttamente nella prospettiva del protagonista Anthony, mostrandoci la realtà come la vede (o forse meglio, la ricorda) lui e che ci consegna l’immagine finale di un uomo consumato dalla malattia, rotto dalle lacrime, che si chiede insistentemente chi è, che vuole essere rassicurato su chi siano gli altri, che, infine, arriva a invocare la madre, stretto all’infermiera che lo accudisce come un bambino.
Come a dire, che non si è mai soli a questo mondo e che anche nella confusione spazio temporale esiste sempre un Porto Sicuro, un Giardino da percorrere per una passeggiata rigenerante.
The Father, un film reso indubbiamente magistrale dal protagonista Hopkins, che, con estrema dignità, mai enfatizzando una malattia tra le più devastanti a livello psicologico, e alternando veri e propri monologhi d’Autore, ci conduce lungo i meandri di un mondo indefinito come quello della demenza, in cui ci si sente “spezzati dal vento, come se si perdessero tutte le foglie, come se non si avesse più una casa” e in cui è infinitamente bello perdersi in un abbraccio.
Perché, confessiamolo, chi non ha avuto per un attimo la tentazione di abbracciare l’Uomo-Bambino invocante la Madre, strappando un moto di umana tenerezza che, da solo, merita tutti i premi della critica che il film si è visto attribuire?