Trump ‘stoppa’ i dazi per 90 giorni. Giappone, Corea del Sud e Taiwan pronti a realizzare un gasdotto tra Alaska e USA

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di Giulio Ambrosetti

La notizia era nell’aria due giorni fa: “Stop ai dazi doganali americani per 90 giorni”. Ma è stata smentita da Donald Trump in persona: “Nessuno stop, si va avanti”. Ieri, com’è nello stile, imprevedibile, dell’attuale presidente degli Stati Uniti, la notizia è stata invece confermata: “Per 90 giorni niente dazi”. Dopo il fine della scorsa settimana e l’inizio di questa settimana di caos, con le Borse di tutto il mondo che vanno su e giù – più giù che su, in verità – Trump ha azionato il freno. Ad eccezione della Cina.

Perché ha lasciato i dazi di altre il 100% al ‘Dragone’? Normale: è la seconda economia del Pianeta dopo gli USA. Ma c’è una spiegazione in più. Quello che il presidente statunitense e i suoi collaboratori non riescono a ‘digerire’ sono le cosiddette ‘triangolazioni’, ovvero i Paesi che importano, sottobanco, merci cinesi, gli danno una ‘sistemata’ e li spacciano per proprie produzioni che poi rifila no all’America. I maggiori indiziati, mettiamola così, sono Messico e Canada che, non a caso, sono stati i primi ad essere colpiti dai dazi di Trump.

E ora? Si comincerà a trattare. Trump vuole capire quali Paesi sono disposti ad acquistare beni americano. O a investire negli USA. “Maga make America great again” (“Maga rendi l’America di nuovo grande”). Sì, per provare a illustrare quello che sta succedendo in queste ore negli Stati Uniti d’America bisogna partire da questo slogan coniato dal presidente. Anche se i media occidentali ne parlano poco, occupandosi prevalentemente del crollo della Borsa e, in generale, del caos scatenato nel mondo dai dazi doganali USA, va detto che nella profonda America, che interessa in maggioranza il ceto medio anche da quelle parti impoverito (ovviamente non impoverito, ad esempio, come quello italiano), ci sono città che registrano fughe di abitanti, fabbriche chiuse, disoccupati e pessimismo a iosa, se non disperazione sociale.

Cos’è successo? E’ successo che la globalizzazione economica, o meglio, gli effetti negativi della globalizzazione hanno colpito anche gli Stati Uniti, dove più, dove meno. Il dumping salariale non ha risparmiato l’America: molte imprese hanno delocalizzato i propri stabilimenti per trasferirsi dove il costo del lavoro è più basso. Emblematico il caso del citato Messico, dove alcuni importanti gruppi imprenditoriali statunitensi hanno aperto i propri opifici per pagare meno i lavoratori e aumentare gli utili. Superfluo aggiungere che gli americani che lavoravano nelle aziende che hanno delocalizzato sono rimasti in buona parte senza lavoro o con lavori precari.

Avrebbe dovuto essere il Partito Democratico americano, che si è sempre professato progressista, a difendere questi lavoratori licenziati. Invece sono stati proprio i Democratici americani a volere e a guidare hanno la globalizzazione.

Così i ceti impoveriti USA votano i Repubblicani di Trump. La stessa cosa è avvenuta in Europa, dove le ‘sinistre’, tranne rare eccezioni, sono tutte globaliste come lo è, del resto la stessa Unione europea dell’euro a ‘trazione’ tedesca e, in parte, francese. In Italia, per frenare il dumping salariale ed evitare la delocalizzazione, i Governi hanno ridotto i salari ai minimi termini e si sono pure inventati la legge sull’alternanza scuola-lavoro, costringendo, di fatto, gli studenti di licei e scuole superiori in generale a lavorare gratis per le aziende. Ma non è servito a nulla, perché le delocalizzazioni ci sono state lo stesso. Ebbene, tutte queste cose, tornando all’America, Trump le sta combattendo. I dazi servono anche a richiamare nel proprio Paese i gruppi imprenditoriali che hanno delocalizzato i propri stabilimenti nelle aree del mondo dove il costo del lavoro è basso. Sarebbe meglio dire, nei Paesi del mondo dove i lavoratori vengono sfruttati. L’attuale presidente USA vuole chiudere questo capitolo che ha impoverito milioni di americani. E vuole spingere altri Paesi a investire negli USA. Cosa che sta avvenendo con Giappone, Corea del Sud e Taiwan, come scrive Nikkei ripreso da scenari economici.it, giornale online che si occupa in prevalenza di economia (per la cronaca, Nikkei è un segmento della Borsa di Tokyo).

L’amministrazione Trump sta utilizzando i dazi doganali per spingere i Paesi che commercializzano con l’America o ad acquistare prodotti statunitensi, o ad investire negli USA. Per dirla in breve, il presidente americano è disposto a ridurre le tariffe o ad eliminarle a seconda le offerte dei Paesi colpiti dai dazi. “Parlando alla CNBC – leggiamo su scenarieconomici.it – il Segretario al Tesoro americano Scott Bessent ha detto che il Presidente Donald Trump sarà coinvolto personalmente nei negoziati per rivedere le tariffe Paese per Paese. Penso che ci saranno molti tira e molla”, ha aggiunto, precisando “che l’esito dei negoziati dipenderà dalle offerte dei partner commerciali. Per esempio, si parla di un grande accordo energetico in Alaska in cui i giapponesi e forse i coreani, forse i taiwanesi fornirebbero i finanziamenti per l’accordo” (qui l’articolo di scenarieconomici.it: https://scenarieconomici.it/lestremo-oriente-conclude-accordi-sul-gnl-con-gli-usa-per-ridurre-i-tassi/).

Si parla della costruzione di un gasdotto per collegare i giacimenti di gas dell’Alaska con i porti americani. In più, questi tre Paesi si dovrebbero impegnare ad acquistare gas americano. Tirando le somme, Trump vuole creare nuovi posti di lavoro in America (costruzione e gestione del gasdotto) e ridurre il deficit commerciale del suo Paese. In queste ore di battaglia commerciale tra USA e Cina – dazi americani sui prodotti cinesi alle stelle, con Pechino che ha già reso agli americani pan per focaccia – il presidente USA prima ha tirato dritto e ieri ha effettuato una ‘frenata’. “Pur di venire a trattare sulle tariffe – ha detto poco prima di sospendere i dazi – mi vengono a baciare il cu…”.

La sensazione è che il presidente prosegua con parole sopra il rigo per drammatizzare lo scontro e complicare lo scenario ai Paesi che considera avversari. Più si moltiplicano i problemi dei Paesi colpiti dai dazi, più gli stessi Paesi sono in difficoltà e questo dovrebbe spingerli a trovare un accordo sulle tariffe. La ‘frenata’ è arrivata proprio per questo: Trump vuole trattare. L’America non può più permettersi un deficit federale che, senza i dazi, alla fine di quest’anno, potrebbe attestarsi sui 2 mila e 800 miliardi di dollari. Quasi quanto il debito pubblico italiano di 40 anni, che oggi ammonta a poco meno di 3 mila miliardi di euro (ricordiamo che oggi euro e dollaro americano sono in quasi parità di cambio). Un’esagerazione? Non proprio, se è vero che nei primi tre mesi del 2025 il deficit federate statunitense si è attestato intorno a 700 mila dollari.

L’America di Trump deve effettuare una svolta. C’è chi sta rispondendo subito per trovare un accordo con gli USA, come Giappone, Corea del Sud e Taiwan e anche come il Vietnam, tra i primi Paesi a contattare il Governo americano. E l’Unione europea? Il 17 Aprile Giorgia Meloni, capo del Governo italiano, dovrebbe presentarsi al cospetto di Trump, alla Casa Bianca. Per trattare cosa? Già ci sono proteste da parte della Francia, che non vede di buon occhio il viaggio della Meloni in America. Il ‘mal di pancia’ francese, ufficialmente, è stato smentito. Ma le tensioni restano.

La situazione è confusa, perché l’Unione europea ha tolto le competenze sul commercio ai Paesi Ue che hanno aderito all’euro: di conseguenza, il capo del Governo italiano non potrebbe trattare con Trump per proporre un accordo singolo con l’Italia. Detto questo, mettere d’accordo i 27 Paesi europei è difficile, se non impossibile. Per esempio, la proposta avanzata dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di azzerare i dazi per i prodotti industriali americani ed europei non è piaciuta molto, perché è stata vista come un tentativo di Germania e Francia di far eliminare agli americani i dazi sulle automobili. Insomma, un maldestro tentativo di tedeschi e francesi di vendere le proprie auto in America sacrificando gli altri settori.

La dimostrazione che dovrebbe essere ogni Paese europea a trattare con gli USA, in ragione delle proprie esigenze. In ogni caso, Trump fino ad oggi ha risposto picche alla proposta della von der Leyen. Un ‘No’ perché il presidente USA non vuole più auto europee e, segnatamente, tedesche? Non si capisce. Qualcosa in più si capirà dopo l’incontro della Meloni con Trump del 17 Aprile. O forse durante la visita in Italia del vice presidente americano, JD Vance, prevista per il 18 e il 19 Aprile.